Il progetto Kyoto parte nel 2020 come dimensione solista di Roberta Russo, performer incredibile sia come percussionista che come cantante.
Si evolve nel 2023 con l’ingresso del producer Salvatore Ronzulli (Truemantic), che affianca Roberta nella produzione musicale e nei live.
Negli anni Kyoto è diventato un collettivo aperto che si compone ora di 4 elementi, con l’inserimento definitivo nel giugno 2025 di Michele Ciccimarra alla batteria e Corrado Ciervo al violino.
Il collettivo si è esibito in festival come Sziget, Eurosonic, Medimex, Jazz:Re:Found e Mondo.NYC, aprendo i live di artisti come Massive Attack e Trentemøller.
Tra i riconoscimenti: Premio Dubito, Premio Live Musica da Bere e la partecipazione a Musicultura e Music for Change.
Sono attualmente seguiti dalla Jazz-O-Tech e dalla Radar MGMT.

Abbiamo parlato di diversi aspetti del progetto Kyoto con Roberta durante la loro intensissima estate di live in tutta Europa
Roberta, siamo curiosi a questo punto di conoscere gli altri 3 elementi dei Kyoto e qual è il loro contributo nella scrittura testi, composizione ed esecuzione live dei vostri brani.
Attualmente, la scrittura e la composizione sono ancora un lavoro a quattro mani tra me e Truemantic: io mi occupo principalmente dei testi, delle linee melodiche e delle strutture dei brani, mentre Truemantic cura gli arrangiamenti e tutta la parte produttiva.
Michele Ciccimarra (batteria) e Corrado Ciervo (violino), invece, sono entrati in punta di piedi nella parte live del progetto, ma non per questo con meno peso.
Anzi, li abbiamo scelti con estrema cura proprio per il loro approccio fuori dagli schemi ai rispettivi strumenti.
Entrambi hanno un modo unico, personale e spesso “non ortodosso” di intendere il ritmo e la melodia.
Ed è esattamente questo che desideriamo contaminare nei lavori futuri: vogliamo che il suono di Kyoto si evolva anche grazie alle loro sensibilità e visioni sonore.
L’apertura ai Massive Attack al Medimex è stata un’emozione nonché una soddisfazione enorme.
Non da meno la presenza nella serata dei Public Image Ltd e sul palco dell’Eurosonic.
Qual è la dimensione che rispecchia maggiormente il sound dei Kyoto?
Quella intima da studio o quella energica e vorace del palco?
Senza dubbio, la nostra dimensione naturale è il palco.
Nonostante la cura maniacale che mettiamo nella produzione in studio, è solo dal vivo che le nostre canzoni trovano davvero respiro.
Ci piace rischiare, sporcarci, lasciarci trasportare dall’energia del momento.
Il live è il luogo dove tutto si trasforma: la tensione elettronica prende corpo, la voce si fa più viscerale e ogni elemento sonoro viene spinto al limite.
Ogni concerto è un’occasione per rigenerare i brani, per rinegoziare le loro emozioni in tempo reale con chi ci ascolta.
È lì che il progetto Kyoto prende davvero vita.

Quali sono state le influenze consolidato la vostra identità sonora?
Io e Truemantic abbiamo background diversi, ma fortemente complementari.
Io provengo da un immaginario musicale legato a band come CCCP, Verdena, Teatro degli Orrori, Iosonouncane, con una forte attrazione per la musica tradizionale, soprattutto quella sperimentale e rituale.
A livello internazionale: Radiohead, Fever Ray, Gazelle Twin, The Knife — artisti capaci di unire introspezione e sperimentazione in modo radicale.
Truemantic, invece, si muove su territori più post-punk e shoegaze: Trentemøller, The Cure, The Soft Moon, Suicide.
Insieme troviamo un equilibrio in questa tensione tra melodia, distorsione, pulsazione e fragilità. È proprio in questo incontro che nasce il nostro suono.
Quanto è importante la tradizione, l’emozione viscerale, l’identità territoriale nel suono dei Kyoto?
Moltissimo.
Non potremmo esistere senza il nostro retroterra emotivo e culturale.
Il Sud, con la sua intensità emotiva, le sue ombre, la sua ritualità, entra prepotentemente nella nostra musica, anche quando non è esplicito.
Cerchiamo di canalizzare quelle emozioni primitive, spesso taciute, e di trasformarle in suono.
C’è una certa urgenza nel modo in cui raccontiamo: un’urgenza che affonda le radici nei silenzi, nei contrasti e nelle contraddizioni del nostro territorio.
La tradizione non viene mai intesa come nostalgia, ma come materia viva con cui confrontarci, da reinterpretare, distorcere e riportare in un contesto contemporaneo.
Cosa ha portato un progetto solista a diventare poi un collettivo aperto così multiforme?
La necessità di rigenerarsi. Di aprirsi all’imprevisto, alla contaminazione.
Kyoto è nato come un progetto solista, ma sin da subito ho percepito il bisogno di rompere i confini, di lasciar entrare nuove voci, nuove mani, nuovi strumenti.
Collaborare è diventato un modo per non restare fermi, per evitare che il progetto si chiudesse in sé stesso.
Ogni ingresso nel collettivo porta con sé uno sguardo nuovo, un respiro nuovo.
E questa forma “aperta” è oggi l’anima stessa di Kyoto.
Qual è il lavoro che più vi rappresenta e qual è il progetto futuro che non vedete l’ora di realizzare?
Ad oggi, l’unico EP pubblicato insieme è Limes Limen, e possiamo dire senza esitazione che ne siamo profondamente orgogliosi.
È stato un lavoro nato con grande consapevolezza, ma anche con quel grado di urgenza e di istinto che lo rende, ancora oggi, vivo e pulsante.
Guardando al futuro, stiamo lavorando a un nuovo progetto che vedrà coinvolti tutti i membri del collettivo e che, speriamo, riuscirà a raccontare ancora meglio chi siamo oggi.
Sarà un lavoro ancora più stratificato, aperto alla sperimentazione e, soprattutto, all’imprevedibile.

Siete presenti nella sfera Jazz:Re:Found.
Cosa ha portato questo festival e tutto ciò che lo circonda nella vostra musica?
I ragazzi di Jazz:Re:Found hanno creduto in noi sin dal primo giorno.
Ed è una cosa rara, soprattutto in un contesto come quello italiano.
Ci hanno dato spazio, fiducia, visibilità, ma soprattutto ci hanno inseriti in un ecosistema musicale in cui contaminazione e ricerca sono la regola, non l’eccezione.
Jazz:Re:Found è molto più di un festival: è un nodo creativo, una rete viva che unisce artisti, produttori, musicisti e ascoltatori curiosi.
Questo ha influenzato profondamente anche il nostro modo di pensare la musica: ci ha spinto a non autocensurarci, ad abbracciare la sperimentazione come una forma di coerenza, non di nicchia.
L’ultima domanda riguarda il panorama musicale alternativo nel 2025.
Pensate che si possano ancora fare delle cose belle e sperimentali senza dover necessariamente vendere l’anima al diavolo?
Assolutamente sì. Ma ci vuole coraggio.
Viviamo in un’epoca in cui l’algoritmo tende a livellare tutto, e la tentazione di adeguarsi è fortissima.
Ma crediamo che, oggi più che mai, sia necessario prendersi lo spazio per essere radicali, autentici, anche imperfetti.
C’è ancora fame di verità, di suoni che non si spiegano con una formula, di narrazioni complesse.
Fare qualcosa di bello e sperimentale non è mai stato facile, ma forse proprio oggi — in questo tempo ultra-digitale e iper-ottimizzato — è un atto ancora più necessario e significativo.
E no, non è obbligatorio vendere l’anima. Basta non perdere la direzione.
Inoltre, non possiamo ignorare che viviamo un periodo storico complesso, attraversato da crisi ambientali, sociali e politiche.
Pensare che l’arte possa restare neutra o “solo estetica” è un’illusione.
Per noi è fondamentale dire la nostra, anche implicitamente, e fare politica nel senso più universale e umano possibile: prendere posizione, raccontare il reale, generare coscienza.
Anche un suono, un silenzio, una scelta stilistica può diventare un atto politico.
E oggi questo non è solo importante: è inevitabile.

I Kyoto hanno aperto il live dei Massive Attack al Medimex di Taranto, portando sul palco un set carico di energia e atmosfera.
Il singolo Sasso ha colpito per intensità e visione, confermando la band tra le nuove promesse della scena indipendente.